Francesco Mamiliano Pistocchi

schermata-2016-09-10-alle-16-56-58PISTOCCHI, Francesco Antonio Mamiliano (detto il Pistocchino o il Pistocco). – Figlio di Giovanni, violinista cesenate, nacque a Palermo nel 1659.


L’assunzione del padre nella cappella musicale di S. Petronio, il 9 settembre 1661, attesta il trasferimento o il ritorno della famiglia a Bologna. Istruito dal padre nella composizione e nel canto, Pistocchi manifestò un precocissimo talento musicale. A otto anni licenziò un libro di Capricci puerili variamente composti e passeggiati in 40 modi […] per suonarsi nel clavicembalo, arpa, violino et altri stromenti «sopra un basso d’un balletto» (cioè sul tema del ‘ballo di Mantova’; Bologna, Giacomo Monti, 1667), dedicato al gonfaloniere di giustizia e agli Anziani della città di Bologna; l’avviso al lettore riferisce prodezze antecedenti: a tre anni il bambino aveva incantato «nelle publiche accademie […] coi suoi canti», e a cinque era stato ammirato dal principe ereditario di Toscana, il futuro Cosimo III, e da molti porporati che l’avevano ascoltato nelle chiese di Bologna o in privato. Nel maggio 1670 cantò in alcune funzioni in S. Petronio; nel settembre successivo il padre interruppe il proprio servizio, forse per lavorare altrove insieme con il ragazzo.

Ai primi del 1674 i due presentarono una supplica ai fabbriceri della basilica: Giovanni per «esser rimesso nel suo posto di violino e tenore» e Francesco Antonio per «essere ammesso per soprano»; il 14 febbraio furono accolti, rispettivamente con due e sei ducatoni mensili. A libro paga nel 1675 e nel 1676, già nel maggio 1675 erano però «cassati e licenziati» per un’assenza non permessa, coincidente con un’esibizione nel teatro di S. Stefano a Ferrara (il giovane vi fece furore nel Caligula delirante di Giovanni Maria Pagliardi: lo si desume da un sonetto in suo onore, Avvertimento a’ Numi dell’Adria; in van der Linden, 2011, p. 59). Nel 1677 furono impiegati a Modena nella cappella di Francesco II d’Este. Nel 1681 Francesco Antonio fu impiegato a Venezia nella cappella di S. Marco; al più tardi l’anno dopo debuttò come operista nel teatro di S. Moisè (Gli amori fatali, rielaborazione di un anonimo Leandro già dato alla Riva delle Zattere nel 1679, e forse anche Il Girello, «rappresentato con figurine di cera»: G.C. Bonlini, Le glorie della poesia e della musica, Venezia [1730], pp. 95 s.). Non oltre tale altezza cronologica va collocato il graduale passaggio al registro di contralto (che non impedì il regolare progresso della carriera) e l’inizio dell’intima amicizia con Giuseppe Torelli e Giacomo Antonio Perti (che gli diede «qualche direzione» di contrappunto e che fu da lui stimato «sopra ogn’altro per il s. Agostino della musica»: Bologna, Museo della musica, K.44.1.91.2 e P.146.195).

Dal 1686 al 1695 fu al servizio del duca di Parma, Ranuccio II Farnese.

Se già nei Capricci puerili vantava di farne parte, nello stesso periodo fu aggregato all’Accademia Filarmonica di Bologna, nella classe dei cantori il 12 giugno 1687 e in quella dei compositori il 25 giugno 1692.

Solo dopo un decennio poté esercitare uffici accademici – principe nel 1708 e 1710, consigliere nel 1701, 1705 e 1715, censore nel 1707 e 1711 –, ma provvide immediatamente, anche da lontano e per tutta la vita, alle musiche di messa e vespro eseguite ogni anno in S. Giovanni in Monte in onore del patrono, sant’Antonio da Padova:  Nel 1719 la sua presentazione di «virtuosi quesiti» portò l’Accademia a istituire il ruolo, poi mantenuto, dei due definitori perpetuiincaricati di dirimere questioni teoriche.

Morto Ranuccio II (1694) e di lì a poco licenziata quasi per intero la cappella di S. Petronio, nel 1696 Pistocchi e Torelli presero servizio alla corte del margravio Giorgio Federico II di Brandeburgo-Ansbach, dove il cantante compose e interpretò lavori di vario genere (la pastorale Il Narciso, libretto di Apostolo Zeno, 1697: Georg Friedrich Händel ne trasse abbondanti prestiti musicali, dal 1705 al 1748; l’oratorio Maria Vergine addolorata, 1698; l’opera Le pazzie d’amore e dell’interesse, 1699). Nel maggio 1697 furono invitati a Berlino da Sofia Carlotta di Brunswick-Luneburgo, elettrice del Brandeburgo e dedicataria del Narciso: vi si trattennero fino ai primi dell’anno successivo. Al soggiorno si lega la pubblicazione degli Scherzi musicali offerti da Pistocchi all’elettore Federico III di Brandeburgo (il futuro re in Prussia): sei cantate e due duetti italiani, due ariette tedesche e due airs francesi (l’autore dichiara di aver imitato in questi ultimi «lo stile gratioso dell’incomparabile Monsieur de Lully»); l’edizione nota (Amsterdam, Estienne Roger, s.a. [ma 1698]; ed. moderna a cura di A. Béjar Bartolo, Lucca 2015) è la probabile contraffazione di una stampa anteriore dell’editore bolognese Marino Silvani: non è dato di sapere se il contenuto coincida con la perduta raccolta di Cantate op. I (recte II?), registrata nel 1734 in un inventario dello stesso editore. Nel carnevale 1699 Pistocchi cantò di nuovo al S. Giovanni Grisostomo di Venezia (Faramondo e Il ripudio d’Ottavia di Pollarolo; nello stesso periodo vi furono trattative con i teatri di Milano e Piacenza). Ancora con Torelli e da Ansbach, sul finire del 1699 passò a Vienna alla corte dell’imperatore Leopoldo I e nel febbraio 1700 vi diede un «trattenimento» carnevalesco, Le risa di Democrito (il libretto di Nicolò Minato risaliva a trent’anni prima); l’imperatore, musicista esperto, ammirò Pistocchi anche per l’abilità nel comporre madrigali in stile antico (segnatamente quello con incipit«Gran Dio, ah, voi languite»). Nel maggio successivo i due erano di ritorno ad Ansbach per ottenere la licenza di partire: eseguita in settembre una nuova cantata di Pistocchi (La pace tra l’armi), poterono infine rientrare in Italia. La fama oltremontana del cantante è confermata dalla menzione che ne fa il libretto dell’opera Der angenehme Betrug oder Der Carneval von Venedig (Amburgo 1707, musica di Reinhard Keiser, atto II, scena 6), dov’è citato insieme con Margherita Salicola, Francesco Ballarini e Pollarolo.

Il 25 febbraio 1701 Pistocchi e Torelli furono assunti nella ristabilita cappella di S. Petronio, sotto il magistero di Perti, e collocati alla testa del coro e dell’orchestra, ben pagati per singola funzione e con posizione semipermanente. Pistocchi compose nuove partiture per la basilica, come il «mottetto per [la festa di] s. Petronio a 8, con due cori di strumenti» del quale diede anticipazioni a Perti nel 1703 (Bologna, Museo della musica, P.146.5). Rientrato in Italia, il castrato puntò inoltre a individuare un erede e a costituire intorno a sé una famiglia tramite adozioni.

Una satira diffusa a Venezia nel 1704 informa del declino vocale del cantante (Bologna, Museo della musica, H.63, c. 96: l’articolazione del suo trillo è paragonata allo scuotimento di un sacco di noci). Ritiratosi dalle scene, Pistocchi continuò per oltre un lustro a esibirsi nelle chiese e nei palazzi patrizi, perlopiù a Bologna (per esempio, in funzioni dell’Arciconfraternita di S. Maria della Morte; a palazzo Albergati, dove nel 1706 prese parte alla serenata Amore e amante di Pirro Albergati Capacelli, «accompagnata da quasi cento istromenti»; e a palazzo Ranuzzi, dove nel 1709 cantò a una festa per Cristiano VI re di Danimarca), nonché a Novara (dove nel 1711 partecipò come cantante e compositore alle feste per la traslazione delle reliquie di s. Gaudenzio). Diede quindi alle stampe un’«opera terza» di Duetti e terzetti (Bologna, Silvani, 1707; ed. moderna a cura di A. Béjar Bartolo, Lucca 2015), dedicata all’elettore palatino Giovanni Guglielmo, e nel 1710 compose l’atto II di un’ultima opera teatrale per il teatro Pubblico di Reggio (I rivali generosi, in collaborazione con Monari e Giovanni Maria Capelli). Nel contempo si affermò come capofila della scuola di canto bolognese e come uno dei massimi didatti vocali dell’epoca; ebbe per allievi, tra gli altri, Gaetano Berenstadt, Antonio Maria Bernacchi, Annibale Pio Fabri, Giovanni Battista Minelli, Antonio Pasi, Domenico Tempesti e Andrea Guerri (Ferdinando de’ Medici glielo affidò di persona).

Ricevuti gli ordini sacri nel 1709, nel 1714 fu nominato cappellano d’onore dall’elettore palatino e nel 1715 entrò nella casa forlivese della Congregazione dell’Oratorio di s. Filippo Neri. Lì ebbe a disposizione mezzi e spazi per proseguire l’attività di musicista (facendosi anche, nel 1718-19, intero carico di un nuovo organo costruito da Francesco Traeri), ma abbandonò poi la casa religiosa e tornò a Bologna.

Nel testamento rogato l’11 gennaio 1725 (Busi, 1891, pp. 182-185) Pistocchi distribuì due clavicembali, molti libri di musica, ritratti di Giovanni Paolo Colonna e Legrenzi, poco altro mobilio di casa e un capitale di 4000 ducati presso i banchi di Venezia. Morì a Bologna il 13 maggio 1726 (risiedeva nella parrocchia di S. Maria Maggiore) e fu tumulato nella chiesa filippina di S. Maria di Galliera.

Tra quanti conobbero Pistocchi e ne tramandarono le virtù, Pierfrancesco Tosi lo definì «musico il più insigne de’ nostri e di tutti i tempi, il di cui nome si è reso immortale per essere stato egli l’unico inventore d’un gusto finito e inimitabile, e per aver insegnato a tutti le bellezze dell’arte senza offendere le misure del tempo» (Opinioni de’ cantori antichi e moderni, Bologna 1723, p. 65), mentre Giambattista Martini scrisse d’aver avuto anch’egli «la bella sorte di venir instruito nel canto, tanto necessario a chi vuole applicarsi a comporre in musica, dal celebratissimo cantante don Francesco Pistocchi, uno de’ più celebri professori che abbia veduto il fine del passato e il principio del secol corrente» (Storia della musica, III, Bologna 1781, p. 437). Le lettere di Pistocchi attestano l’autorità del musicista e uno spirito critico traboccante di vivacità e sarcasmo. Un suo ritratto senile è nel Museo della musica di Bologna; fu egli stesso committente di pitture e sculture di pregio (per esempio, di Felice Torelli, fratello di Giuseppe, e di Giuseppe Mazza).

Le composizioni di Pistocchi non altrimenti destinate nel testamento, «tutte cose all’antica», furono «stimate a peso, per vedere se si può ricavare qualche cosa di più della carta» (cit. in Busi, 1891, p. 185).


di Francesco Lora

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